alla
presentazione del libro " hyperframes" un discorso sulla
post-appropriazione in arte, al centro sociale polivalente (ex) educatorio
della provvidenza di torino, in pieno clima olimpico eravamo in poco
più di una decina di persone. la cosa non mi stupisce, anch'io
d'altronde ero venuta a conoscenza di questo incontro quasi
casualmente attraverso un amico in quanto l'anno scorso avevo
presentato la mostra "polittico" proprio in questi locali. una
ulteriore occasione per constatare la sproporzione di mezzi e la
risposta del pubblico a seconda del "domaine" di riferimento.
tra i relatori
castagnotto, conti della casa editrice "campanotto editore", gian
carlo pagliasso curatore del volume.
pagliasso per prima cosa ha
introdotto l'argomento tentando di spiegare il significato del
termine "hyperframes" nella sua traslazione in italiano e lo ha
fatto partendo dall'etimologia stessa della parola. hyper: fuori
e frames: cornice. dunque per estensione, in senso "vagamente"
metaforico fuori dal contesto. dove, a quel punto, diventava
interessante indagare fino a dove l'estensione della metafora si
fosse spinta e fino a che punto fosse stata (o era ancora) in grado
di reggere.
pagliasso quindi
ha continuato proponendo una sintesi storica dell'arte a partire
dal 900 concentrandosi poi in particolare sugli ultimi decenni.
quelli che interessano più direttamente l'attività di "collins &
milazzo" e nello specifico "hyperframes". che si era concretizzata
attraverso una serie di 6 conferenze tenute alla yale university di
new york (da collins e milazzo appunto).
oltre alla teoria
questo approccio avrebbe dispiegato e definito un'operatività e un
nuovo modo di fare critica o un' “anti-critica”. nuove figure
non più definibili con i precedenti parametri “professionali”,
"ibride" si sarebbe detto, avrebbero interpretato, dunque
interagito, con la nuova generazione di artisti americani degli
anni 80 e 90 e nel complesso, al di là del dato generazionale,
avrebbero dato vita ad una nuova realtà artistica.
pagliasso ha
quindi proseguito proponendo una sintesi storica che risultava
essere in qualche modo un percorso coerente con le più accreditate
interpretazioni di storici dell'arte quale un giulio carlo argan.
accreditate in quanto effettivamente, oltre al pregio della
sintesi, hanno avuto il merito di restituire (se non l'"assoluto")
certamente almeno una sfaccettatura reale e una lettura
“relativamente oggettiva” dello stato delle cose.
infatti nel
fotografare la prassi consolidata che vede l'arte affermarsi là dove
c'è egemonia economica si potrebbe obiettare un profilo prettamente
pragmatico, una specie di fotografia storica a posteriori escludente
tutto il retroterra problematico inespresso o utopico e le sue
potenzialità. questo mentre sia l'analisi storica che il presente
tendono a mettere in discussione una prassi unilaterale o statica
(pur non escludendo l'oggettivita in parte irreversibile di ciò che
accade …) e la fenomenologia scorge il germe del cambiamento in un
altrove non così scontato.
in ogni caso
pagliasso ha giustamente sottolineato una realtà: lo spostamento
graduale dell'asse dell'arte da parigi a new york a partire dalla
seconda metà del secolo scorso. tendenza contrastata poi negli
anni 80 e 90 dal recupero di una forma artistica europea in parte
certamente originale in parte più tradizionale. in cui era ancora
rintracciabile una matrice pittorica e iconografica non priva di
una sua carica espressionista e che forse proprio per questo
aveva trovato riscontro in un pubblico relativamente esteso anche in
america. una radice culturale però estranea alle avanguardie di
riferimento europee da cui la storia dell'arte contemporanea e
anche americana si era sviluppata in modo poi del tutto originale
e infine autonomo. il riferimento (delle avanguardie) è a dada e
surrealismo alle avanguardie russe ed europee di matrice
costruttivista e maleviciana, all'astrattismo ed espressionismo da
cui l’astrazione lirica, l'arte concettuale, il neo e
de-costruttivismo solo per citarne alcuni …
in un nuovo
contesto storico (quello degli anni 80-90) rappresentato nello
scenario internazionale e newyokese in particolare, dai
neo-espressionisti da un lato e i cosiddetti "teorici dell'immagine"
si inserisce "hyperframes". una critica della critica, tra la
sentita autoreferenzialità dei primi e ciò che veniva denunciato
come la deriva professionale dei secondi. priva cioè di avanzamenti
che non fossero "tra parentesi" là dove la vera deriva consiste/va
invece in una stasi utopico-rivoluzionaria.
la mia personale
esperienza, maturata contemporaneamente in italia negli anni 90, se
da un lato mi porta a comprendere la "prospettiva" teorica di
hyperframes dall'altro tende a sottolineare senza troppa
interposizione mimetica una valenza se non esclusivamente,
anche/ancora strutturale. per spiegarmi meglio
senza una rivoluzione anche strutturale, come quella
francese, nonostante ancora carica dei retaggi e "costumi"
aristocratici non si sarebbero mai potute interpretare e
sprigionare tutte le potenzialità economiche e culturali
contemporanee. ma una rivoluzione perché non si
trasformi in restaurazione deve, anche a fasi alterne, interpretare
in pieno e superare i problemi più importanti non ancora risolti in
una società. non basta cioè
cambiare, bisogna farlo in meglio e, mentre i baratri degli
arretramenti hanno profondità abissali questa nuova sensibilità e
percorso non sono ne preconfezionati né segnati in alcun luogo.
si misurano con la storia ma anche con gli ostacoli del presente e
dello specifico.
in questo senso è
anche vero che l'operatività che ha contraddistinto hyperframes
in qualche modo implicava una critica ad un marxismo recepito ormai
come ottocentesco, troppo sovente trasformato in dogmatismo. e,
allo stesso tempo, una critica ad una prassi economicistica da cui
la produzione e lo spettacolo in particolare risultano estremamente
condizionati.
il nuovo terreno
su cui si attiva "hyperframes", precedentemente anticipato dalla
rivista "effect" (uscito in 3 numeri di cui il 1° del 1983), si
innesta esattamente tra queste due realtà risultando efficace al
punto da produrre la necessaria contraddizione con il mondo dello
spettacolo "consumistico".
il tentativo
doveva essere quello di portare più prassi in uno strisciante
dogmatismo concettuale e al contrario mantenere un linguaggio, anche
visivo, depurato però dall'unilateralità emotivo-espressionista.
esperienza poi ulteriormente definita durante gli anni 90. in una
prospettiva dove non erano prestabilite o delegate ne gerarchie né
responsabilità. nasceva così un nuovo modo di operare attraverso
diverse priorità oltre che a una” "produzione" artistica e a
figure “professionali trasversali e "ibride".
ma ritornando al
discorso sull’analisi storica introdotta da pagliasso questo ha il
merito di far emergere un problema e mi da modo di sottolineare
come quella dialettica di per sé legittima sia strumentalizzata
oggi (sovente in modo del tutto indipendente dalle intenzioni degli
storici) ad una contrapposizione europa/stati uniti contestabile
"in termini" …, anche nel senso dell'uso di parole, (troppo .. sic!)
sovente prelevate dal vocabolario bellico: invasione, supremazia e
via dicendo …
mentre… non
credo che “artisti" e "operatori culturali” (per usare un termine
ormai convenzionale e a suo tempo in uso tra i gruppi artistici
degli anni 60 - che ,almeno in italia, avevano già sollevato molti
problemi in questo senso ) sentano questa contrapposizione se non
in forma residuale. cioè come sovrastrutture categoriali rigide da
cui ancora non sempre è possibile liberarsi: mero condizionamento
culturale, consenso, interessi.
certo esistono
esperienze e realtà specifiche ma che questo debba concretizzarsi in
una contrapposizione continentale tra europa e america nell'era dei
problemi globali e della comunicazione non sembrerebbe più essere
nelle intenzione degli "attori". questo vale anche per un'impronta
economicistica ovunque molto calcata sovente proprio perché di
fatto squilibrata e/o soggetta a speculazione. in realtà nel caso
delle avanguardie reali, della critica radicale o di movimento il
periodo intermedio del loro agire è caratterizzato da un risvolto
economico instabile. solo in seconda istanza questi si trasformano
diventando oggetto di comunicazione e "cultura" (anche con il
relativo risvolto economico) oppure di una speculazione che
normalmente ne sottolinea paradossalmente il fallimento (anche
parziale) o la fine del suo agire diretto nel presente.
ma se il
pensiero è già in qualche modo progetto a cui ci si conforma allora
è legittimo prendere le distanze da una prospettiva che denuncia un
pensiero non ancora in formazione ma già e ancora conform/ato.
la
contestualizzazione nel panorama della storia dell'arte
contemporanea ad opera di pagliasso ,sempre durante la presentazione
del libro, forse proprio nel tentativo di uscire da questi schemi
ha infine lasciato aperto o meglio in sospeso il discorso tra
descrizione e giudizio. la mia interpretazione del tutto personale
tende a orientarsi verso un approccio prevalentemente, ma non
esclusivamente, analitico. anche perché la constatazione è altra
cosa dalla teoria e dal giudizio. e d’altra parte una neutralità,
anche responsabile, si presterebbe quasi a giustificazione o
sovrapposizione del clima stagnante sia economico che politico
attuale. non solo ma impersonerebbe quel riformismo o meglio
quelle routines riformiste così apprezzate (anche giustamente) ma
che da sole raramente si dimostrano risolutive.
peccato non poter
riportare qualche stralcio d/e/alle lettere di collins e milazzo o
delle conferenze in quanto protette da copyright.
una fitta
proposizione teorica non fine a se stessa. basti per tutti citare
i temi di alcune conferenze:
"forme primarie,
strutture mediate" (1985/87), "consumo radicale e la nuova povertà"
( 1987),
una vera sorpresa
e una buona ragione per approfondire l’argomento.
paola zorzi
biella pralungo
7 marzo 2006
volume edito
dalla "campanotto editore" - pasian di prato (UD) – italia
p.s.
ultima
considerazione: nella realtà artistica italiana degli anni 90, pur
tra mille contraddizioni, del resto presenti ovunque, uno dei
fenomeni più interessanti è stato il concretizzarsi di
un'alternativa alla esclusività dello spazio-galleria. non si
tratta/va cioè più di giudicare la prassi di una piuttosto che
un'altra galleria ma di uscire dal monopolio di un sistema che per
estensione risultava sottoposto agli stessi meccanismi del sistema
economico in atto (cioè capitalista).
sarà forse per
questo che nel leggere il libro oggi a me suona strano e un po'
(datato"!?") il rapporto tra il termine galleria così presente nel
libro e l'impianto teorico e linguaggio utilizzato… certo c'è
sempre stata galleria e galleria e anche le gallerie nel frattempo
erano/sono molto cambiate.
così come a
seconda del percorso e del periodo possono risultare del tutto
differenti i punti di riferimento.
ma/h/ ("!?")
intanto in italia
però molti di noi, (comprese alcune rare gallerie e spazi
artistici) stanno ancora pagando in qualche modo oltre che per
l'affronto fatto ad un sistema, la passività e l'assuefazione o
disaffezione che questo aveva generato tra il pubblico.
un “pubblico”
che non volevamo più considerare ne come élite né come massa.