“Un poeta nel tempo della povertà” Paolo Gubinelli

 

Nel Ventesimo secolo – specie in arte – è insorta la consapevolezza del valore unico e irripetibile del gesto pulsionale dell’artista nell’atto del dipingere. Il gesto pulsionale – espressione emotiva della corporeità riconosciuta soggetto di linguaggio -  del dipingere

(o del disegnare); è traccia e sintomo della coscienza; anche un segno non intenzionale della mano, lo scarabocchio, è un evento espressivo del valore unico e assoluto della persona come soggetto storico, considerato fondamento ultimo di ogni altro valore.

L’artista non dipinge perché ha da dire, o dare, qualcosa al mondo, ma perché esiste;  il suo graffio o la sua macchia di colore è rivelazione del valore ultimativo, fondamento di ogni altro, dell’unicità assoluta della persona e della irreperibilità della sua avventura storica.

Dipingere con la libertà pulsionale di gesti fisici non gestiti da intenzioni o progetti della ragione è segno  della primarietà e priorità dell’esistenza come valore fisico, e anche la corporeità esplode come valore e sintomo irripetibile  e bene assoluto. In quanto tale, l’atto del dipingere non si rapporta più al mondo o all’interpretazione della storia, né alla progettualità dell’intendere e del volere, né alla moralità di una tensione politico-sociale che intenda comunicare valori o inviare messaggi. L’artista compie la sua opera non per dire, ma perché il suo “fare” è espressione della sua esistenza, unica e irripetibile, nella storia.

Ciò che muta, con una coscienza così nuova, e ciò che accade di diverso in questo nuovo orizzonte della coscienza, si trova esplicitato nelle parole di Alice al suo gattino: “Perché, vedi, nel mio mondo ciò che è, non è;  e ciò che non è, è” (Lewis Carrol, Alice nel paese delle meraviglie). I segni e perfino gli scarabocchi sono  espressione dell’irripetibilità e dell’unicità della condizione di esistenza storica dell’artista come persona.

In questo secolo, l’universo della pittura scopre il suo centro in ciò che il corpo segna, descrive, fa accadere con la mano che batte, pulsa e lascia scritto, senza ubbidire a un progetto mentale o alle intenzioni della ragione. L’arte rende storia ciò che non era fino a quel momento, quando la mano trascrive i segni che il corpo inscrive con il battito del braccio che cade, sospinto dalla pulsionalità istintuale del corpo. E così fa apparire un nuovo universo, che non si commisura né si rapporta all’universo esterno alla coscienza.

La comunicazione dell’arte non è la trasmissione di un messaggio o  di significati  né la trasposizione di senso. L’arte si arroga il diritto di riconoscere come valore unico e assoluto, in tutto omologo a quello della esistenza storica della persona, perfino il disarticolato gioco di colori e di segni che il “fare” arte inevitabilmente  può produrre. Ciò che si realizza è opera, e ciò che accade si tramuta in scheggia e testimonianza della condizione unica dell’esistere. Ciò che l’artista realizza è documento storico. Il messaggio, la comunicazione è già dentro il movimento delle cose che  accadono.

L’arte non ha questo compito, l’arte non è una parola logica, è una parola analogica, e in quanto analogia e segno, non appartiene al dominio della ragione (l’Occidente infatti ha sempre inteso il logos come conduttore di senso). La parola non deve produrre senso: in Oriente anche il segno è conduttore di un senso inscritto dal puro movimento della mano senza intenzioni progettuali. Nel XX° secolo l’artista non si lascia più  dominare dalla sua razionalità nel fare l’opera, ma si lascia guidare dall’opera. L’opera si trasmuta nel divenire opera.

Essere poeti della luce (pittori) significa vivere in dissimetrico e conflittuale rapporto con l’epoca del mondo, con il compito e gli scopi che il mondo persegue, significa farsi straniero che si accampa ai limiti di ogni accadimento. Restare sospesi sulla soglia degli eventi, vivere la condizione dello zwischen sind wir, come scriveva Hölderlin,  significa guardare ogni fatto (memoria storica o evento reale nel tempo presente, battito di furtive percezioni cui lo sguardo del cuore o le ragioni della mente danno forma rendendole racconto e storia) come in una nebbia. Significa percepire forme  in movimento costante che assumono, come in una altalena alla moviola, nuove configurazioni e subito dopo si trasmutano in altre figure, immagini e segni. L’opera consente alla coscienza di vedere il mondo e tutto ciò che vi abita, anche l’abisso della  storia personale della coscienza.

E tuttavia l’arte non è ancora il vero mondo della riconciliazione avvenuta, del volto a volto, quando potremo vedere  faccia a faccia: “nunc videmus  in aenigmate: nunc autem facies ad faciem” (I Cor.13,12).

I pittori, come i poeti, realizzano il rapporto con il mondo come se esso fosse  battito autobiografico dell’esperienza e della totalità  del progetto di economia della salvezza, perché il tempo della pittura è tempo di salvezza per la coscienza della nostra epoca e della nostra storia, nell’esperienza artistica.

Scriveva Martin Heidegger: “Essere poeta del tempo della povertà”, (di cui parla Hölderlin nell’elegia Pane e Vino), “significa, cantando, ispirarsi alla traccia degli dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della notte del mondo il poeta canta l’Eterno”. Perciò il pittore del tempo della povertà deve espressamente dipingere l’essenza della pittura. Ma ciò che l’artista dipinge, non è ciò che è nel mondo. La pittura è solo ciò che è, senza essere rivelazione di ciò che già è visibile.

La struttura architettonica della pittura dei secoli precedenti franò, e su questo incipiente e vacillante tentativo di una pittura libera dalla forma e articolata secondo una scompaginata scacchiera di colori, il secolo scorso pose le sue fondamenta verso il nuovo e il futuro. La pittura non avrebbe più obbedito a forme armoniche e a composizioni-modello dell’universo culturale dei secoli precedenti, ma sarebbe divenuta lo spazio di libertà interpretativa della coscienza dell’artista dinnanzi al mondo, espressione e rivelazione della propria visione interiore. Il colore diveniva epifania della luce del cuore, soggiogato da suggestioni teologiche dinnanzi al creato.

“Cos’altro fare se non scommettere su una speranza?” si chiedeva François Mitterand nel 1981 a proposito della cultura.

Anche nell’universo dell’arte l’interrogazione è costante, e percuote la nostra coscienza. La speranza non è cosa vana, aleatoria, dilatata nel futuro. Essa germoglia e diventa storia nei “segni dei tempi”, che bisogna discernere, decifrare e coltivare.

Ritengo l’opera di Paolo Gubinelli, artista raro, di delicatissima intelligenza e qualità,  di intellettuale coraggioso e  inattuale, fedele alle sue radici, la cui opera pullula di aristocratici segni che alludono all’Oriente ma che edifica prendendo  la “lezione di gloria” (E.Montale) da Klee, Kandinskij e dalla sublime avventura irrepetibile del Bauhaus, ritengo l’opera di Gubinelli “un segno dei tempi” in  questa stagione  arida e secca da trottola di luna-park  della pittura contemporanea.

Negli ultimi decenni la grande ricerca di un’arte lirica e ascetica non abita più il nostro presente artistico-culturale. Oggi la grande avventura del Bauhaus appare inattuale. Una malattia della mente impedisce alla cultura europea la riattualizzazione del recente passato. Urge sconfiggere “il sonno della memoria” di cui parla Barbara Spinelli  nel suo libro storico- politico. Scrive la giornalista: “Più la memoria viene evocata, più si ossifica fino a rasentare la sterilità. Più se ne lamenta l’assenza, più gli appelli suonano invani. Il divario tra le meditazioni sul passato e la prassi, tra l’invito a ricordare e l’incapacità di agire non può essere più palese” (B.Spinelli, Il sonno della memoria, Milano 2001).

Paolo Gubinelli ha il coraggio e non il culto della memoria. Nella sua opera  scivolano - come un rivolo costante delicato e sottile - gli orizzonti e i paesaggi di tutta la più nobile delicata e raffinatissima arte del XX° secolo.

Con la sua ricerca Gubinelli impedisce al tempo presente di stagnare, rendendolo movimento. Egli cade nel tempo e lo riconosce, dando alla sua ricerca il senso del suo tempo. Guarda il presente dalle spalle dei giganti dell’arte del secolo scorso, e dall’alto delle loro spalle vede e guarda lontano riattualizzando le grandi conquiste degli artisti più raffinati del ‘900 europeo, con sguardo particolare ai maestri del Bauhaus.

L’opera di Gubinelli è un libro, un’unica opera che racconta una stagione storica della ricerca  artistica attraverso un percorso autobiografico.

I  fogli disseminati di questa autobiografia sono parte di un unico rotolo, ove in ogni frammento, in ogni pagina, Gubinelli - con spirito ascetico - narra il paesaggio del suo sguardo sull’arte, trasmuta in  frammento  un Cantico che è solo il suo personale commento all’avventura artistica del’900,  prediligendo la ricerca intenta a ridurre l’armonia ultima dell’universo in  filamenti di segni e  optando per la geometria piuttosto che per la ruvida materia, trasforma il racconto in eco che si dissolve in una vaga  rimembranza delle origini matematiche dell’universo.

Le sue opere sono brani ed echi di una poesia che appartiene a un unico corpo:  quello della sottrazione, dell’eliminazione della materia per  cogliere solo la luce. Tutto nella sua ricerca è architettura di segni, ove “un segno corregge un altro segno” ( P.P.Pasolini,  in Teorema).

Lo sguardo di Gubinelli  guarda l’universo e lo decifra nei segni–disegni riconducendo il cosmo in armonia.  Il suo paesaggio si dissolve in ritmi, formule geometriche, proporzioni numeriche, ipotesi alchemiche di sentieri indecifrabili. L’universo dell’artista  ci spinge a ricercare il centro. Ma oggi si    può ricercare il centro? In sintonia con la ricerca scientifica e filosofica del XX° secolo, con la poesia  più raffinata  di poeti alessandrini  come Edmond Jabès, e con la vertigine oscura della mistica,  si    può affermare  che per l’artista (come per Paul Klee  in “Strade  principali e strade secondarie” e in quasi tutta la sua opera), il centro è la lontana  periferia, la dispersione  frantumata, l’assenza    divenuta coscienza,  l’oblio del sapere, la liturgia dell’anamnesi trasmutata in amnesia.

Queste sue opere non hanno centro, e senza centro  non c’è  né margine, né dorso, né forma, nè sigillo, solo la vaghezza di una traccia luminosa di acqua colorata, solo velo che ravvolge e allude.

Questi fogli registrano orme, tracce fragili per un cammino nel deserto. Queste opere di P. Gubinelli  custodiscono la grazia del vuoto, così come richiede lo Zen, e cosi come la  pittura orientale  insieme alla calligrafia dell’ordine cino-giapponese testimoniano. Sono  opere che  esprimono un annuncio senza parole. Su di esse c’è solo l’alito della vita dell’artista, il mormorio del fragile e  pudico girovagare-oscillare della sua mano. Una vita che si adagia sulle pagine che l’artista dipinge, che tenta di estendere un velo acquatico al fine di non sfilacciare, custodire e proteggere il tessuto della speranza del suo sguardo.

E se memoria appare è soltanto quella di ciò che non è più. Queste  opere sono sempre tempio di silenzio, di vuoto, di primordiali paesaggi di malinconia, armonie che rinviano al cominciamento di ogni universo.

Tutta la ricerca di Gubinelli rinvia al cammino, alla sua vera passione che è il ricercare nello spirito la strada “dell’in sù  e dell’in giù” (come dice un frammento di Eraclito), un pellegrinare labirintico e indecidibile. Il racconto dei suoi disegni attraversa le contrade del colore preaurorale.

Fragili fogli o supporti delicati di materia, questi quadri sono mantello in cui l’artista ravvolge le sue delicate e fragili architetture realizzate da filiere di segni. Ogni suo acquerello, ogni pagina di questo libro racconta il paesaggio del suo mondo, ogni foglio è uno schermo ove – come in un fotogramma – l’artista proietta e registra, come su una matrice, la sua immaginazione e il suo dialogo con il mondo.

Paolo Gubinelli guarda, scruta, mette a fuoco, ascolta, spia come un veggente-poeta, trasmuta il suo ricercare in un lirico racconto di linee fasciate di luce, occultata in tremula acqua colorata. Foglio dopo foglio, pagina su pagina, l’artista è intento a scorgere e descrivere “il sole di candida luce nel mezzo della notte” (Apuleio, Favola di Amore e Psiche).

                   Settembre 2002                                                                                      Carmine Benincasa

 

Ediz. L’Arte Grafica Gubbio

 

Comune di Ferrara – 2002

Istituto di Cultura “ Casa Cini “

Testo di Crmine Benincasa

Poesia inedita di Maria Luisa Spaziani

 

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