Milano, 7 febbraio 2002

Caro Gubinelli,

 

gentilmente, mi ha chiesto di scrivere qualche riga  sul suo lavoro e lo faccio volentieri. Ma più che una riflessione critica, preferisco lasciarmi coinvolgere emotivamente, descrivendo le mie impressioni più immediate e spontanee.

Di Lei hanno scritto critici illustri tra cui Giulio Carlo Argan che ha sottolineato, con saggezza, come la razionalità che emerge dalla sua indagine non sia deduttiva, ma induttiva e non immediatamente dimostrabile. Una ricerca, spiegava, Argan nel 1991, che dà vita ad una spazialità senza volume e a una luce senza raggio.

Lei, dunque, non è interessato al puro processo logico, ma è alla ricerca di quella dimensione che va oltre la sfera fisica e in questo senso i segni di colore-luce si depositano sulla carta interagendo con essa, quasi fosse un tracciato dell’inconscio o, ancor meglio, un percorso che ha radici lontane nella memoria dell’essere.

Nel suo caso, la pittura s’impone come rivelazione, come processo mentale e autonomo dove la natura agisce all’interno delle cose mantenendo un sottile equilibrio tra sentimento e ragione.

In fondo, era proprio Theo Van Doesburg a sostenere che “non c’è nulla di più concreto e reale di una linea, di un colore, di un progetto” e le sue carte che, come lastre fotografiche sono in grado di assorbire la matrice della pittura, sono lì a dimostrarlo.

Lei, insomma, ha la rara capacità di cogliere la traccia invisibile del reale uscendo dalle schematizzazioni sempre troppo rigide tra astrazione e figurazione.

La questione di fondo sta nel coinvolgere lo spazio inteso come totalità di segno e materia. Lo straordinario Bruno Munari, artista e teorico ancora in gran parte da scoprire, ha giustamente sottolineato come il suo lavoro ci proponga “stimoli pre-percettivi, frammenti di segni e apparizioni del colore”, accennando alla relazione esistente tra il suo lavoro e la filosofia Zen.

In effetti, sempre Munari nel 1985 ricordava che “solo l’arte, ormai completamente libera, ci può condurre a esplorare questi mondi inesplorati al limite della percezione”.

Un segno, il suo, che diventa presenza fisica, evocazione lirica, ma anche memoria, intuizione e simbolo nell’ambito di una ricerca individuale e autonoma. A questo proposito mi torna in mente una frase di Maurice Merleau-Ponty che ricordava come “siamo dispensati nel capire come la pittura del corpo possa farla sentire all’anima” e, di fronte ad un sistema dell’arte contemporanea che tende a congelare i sentimenti, mi sembra che la spinta vitalistica rappresentata dalla sua ricerca rarefatta, ma mai davvero minimale, sia un fatto importante. Non vorrei contraddire gli importanti critici che mi hanno preceduto, ma devo dire che, almeno nelle opere recenti, gli accostamenti con Lucio Fontana o Enrico Castellani non mi sembrano così evidenti.

Del resto - lo aveva già notato Giovanni Maria Accame – le sue carte non presentano lacerazioni ma, semmai sottili scalfiture e in ciò va riconosciuto il controllo della ragione.

Per questo, io sarei propenso a collocarla in quel filone dell’indagine estetica che ha saputo coniugare poesia e razionalismo, leggerezza e armonia, segno e sogno. Mi riferisco, in particolare, a Osvaldo Licini, Gastone Novelli, Fausto Melotti e naturalmente Paul Klee. Proprio il maestro tedesco aveva scritto “la linea non imita più il visibile ma rende visibile”.

Oggi che l’arte è sempre più legata ai processi pubblicitari e massmediali è confortante poter contare su un artista come Lei che va alla ricerca del non detto, dell’elemento immateriale, insomma, di quella dimensione dell’inconscio che custodisce le verità più segrete delle cose.

E non a caso sono proprio i poeti, ancor più degli artisti, i suoi compagni di strada.

 

Con stima

Alberto Fiz  - 2002

 

Ediz. L’Artye Grafica di Gubbio

Villa Pomini,  Comune Città di Castellana - 2002

testo di A. Fiz

Prosa poetica inedita di T. Rossi

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