IL COLORE DELLA MISOGINIA 

Clotti Ricciardi

Mi sembra che chiunque partecipi a questo tipo di mostra deve cominciare dichiarandosi, perciò richiedo prima di tutto come ne interpreti il titolo.

Nella mia percezione la misoginia è più che nera, è pantanosa. E’ composta da un groviglio di cecità e di sordità in quanto presuppone il non riconoscere l’altro da sè, e questo significa l’impedimento ad avvicinarsi al diverso, la rinuncia all’avventura che invece è per me la cosa più affascinante. Suppongo che il misogino sia una persona chiusa, non interessata alla scoperta degli altri. In questo senso nella misoginia più che un colore vedrei un non-colore: il colore vive di luce, se non c’è la luce dell’avventura non c’è neanche il colore.

Non ti ha lasciata perplessa la possibilità che sia la mostra stessa a presentare il colore della misoginia?

Come in tutte le mostre i titoli  fascinosi sono presenti più come attrazione che come sostanza. Il titolo è “Il colore della misoginia”, ebbene per me  la misoginia è l’assenza del  colore. Dunque, come rispondi a questo invito, con quali opere? Le hai scelte tu?

Io le ho proposte a Vittoria, a lei sono piaciute,quindi si può dire che le abbiamo scelte insieme. All’invito ho risposto innanzitutto con molta allegria, perché noi, proprio noi siamo talmente fortunate: viviamo in questo secolo, il che è già una svolta non indifferente, e viviamo in questo emisfero, altra svolta non indifferente. Siccome non abbiamo fatto niente per meritarci tanta fortuna,  questo solo fatto mi mettevi buon umore. Dopo di che, anche un bel  po’ di lotta e di guerra per cambiare le cose va bene perché è stimolante. Quindi: prima di tutto l’allegria, poi una bella dose di rabbia positiva che anche ci vuole, e infine un po’ di fatalismo. Mi pare che vada bene.

Su questa premessa, quali sono le opere che esponi?

La mia critica alla misoginia è rappresentata da un’opera che rientra nella serie degli “Specchietti per le allodole” fatta per la Biennale di Venezia del ’93. Questa ha la forma della trappola usata dai cacciatori per catturare le allodole: una forma stilizzata di uccello cui sono applicati tanti specchietti di richiamo. Toccata, ruota in tutte le direzioni. Mi sembra una critica abbastanza contenuta e anche graziosa, perché è proprio quello il punto: è lo specchietto per le allodole  che ti frega trascinandoti in una dimensione in cui sei sempre in seconda battuta e mai in prima poichè rispetti quello che vogliono gli altri e non quello che vuoi tu.

Poi espongo “Il filo conduttore”: 35 metri di occhi dipinti tutti copiati dal vero, per essere precisi. Ci sono anche i miei e poi quelli delle persone che mi stavano vicine, una scelta di dieci che poi si ripetono. Secondo me è la chiave del mio lavoro, ma anche del mio modo di stare al mondo. Guardare e saper guardare, vedere e saper vedere. Non è facile, perché vedere vuol dire scegliere, levare le scorie, arrivare al nocciolo delle immagini e dei segni per capire bene. Ho imparato, dunque questo filo di occhi che accompagna le mie opere è anche il mio modo di stare nelle cose. E’ un oggetto semplice, esile, un nastro di seta con occhi dipinti, ma io mi ci riconosco, sento che mi rappresenta. Per non dire che l’occhio è lo sguardo,è quello che permetto a noi di fare gli artisti, ed è un mezzo di indagine per una forma di conoscenza che credo sia la più antica, più del linguaggio verbale: riconosci una cosa prima dalla forma che dal nome, la riconosci perchè la vedi, perché la sua forma è sintetica, espressiva, inequivocabile,è la cosa stessa senza mediazioni concettuali.

Non è a caso che sulle immagini si sono costruiti tutti i significati del soprannaturale, anche gli Dei. E, per concludere, anche lo specchio dà con una immagine il riconoscimento di se stessi.

L’opera, più corposa, è “l’Oceano”: un grande disco basculante di m. 1,80 di diametro, inserito in una circonferenza. Il disco è di acciaio rivestito di resina sulle due facce, la circonferenza è di ferro con uno spessore di10 centimetri circa. L’oceano può variare il suo assetto, per esempio può ondeggiare. Ho fatto due Oceani grandi: quello che sta alla Galleria Comunale di Roma ha un movimento libero, mentre questo lo apri come vuoi e il o fermi a terra. Ho molto lavorato con l’acqua vera, con le cose liquide, con tutto quello che sembra un po’ fermo. In realtà a me piace tanto l’ambivalenza continua di questa cosa che scorre, che non ha forma ma poi assume la forma di dove sta, che può essere ferocemente distruttiva però anche salvifica, che è la vita e la morte. Penso che tutte le cose hanno un dritto e un rovescio,un bene e un male, una serie infinita di risoluzioni e di situazioni da cui poi siamo noi a dover tirare fuori quello che vogliamo. Per me l’acqua è tutto questo. E poi io sono femmina e ho i miei fluidi, i miei liquidi. Vorrei dire ancora una cosa,che forse è perfida ma forse no. In questo periodo hanno fatto tante mostre, belle e brutte, e c’erano sempre tanti maschi e una femmina, e poi ancora tanti maschi e una femmina e così via. Ma santo cielo, siano lontani dagli anni Sessanta, come mai ancora succede questo? Onestamente io non credo che sia cattiveria o malanimo nei confronti delle artiste, credo piuttosto che sia per ignoranza. Non avendo approfondito questo concetto del soggetto doppio, del fatto che l’arte ha due momenti relazionali, l’uno di riconoscere se stesso, il proprio, e l’altro di riconoscere il diverso, l’altro da sé, ora i maschi hanno una gran paura di saper riconoscere soltanto se stessi senza poter andare verso il riconoscimento dell’altro.

Spesso in Italia nelle mostre ospitate dai Musei si espongono tutti artisti maschi e una donna di vecchia fama che appartiene a una generazione parecchio precedente la generazione degli artisti maschi presenti. Anche se è un’ottima artista, di fatto fa l’ostaggio. Così si fanno due danni: il primo è di omettere tutte le artiste contemporanee che avrebbero il diritto di starci, il secondo danno è di decontestualizzare un’artista mettendola in un contesto che non è il suo. Sembrano ignorare che esistono due soggetti nel mondo con due sguardi diversi, e la ricchezza viene proprio dal confronto. Invece si tengono stretti a un pensiero autarchico che finirebbe per portarli alla distruzione, e gliela augurerei pure se non fosse che sono concittadina loro e toccherebbe anche a me. La continua esclusione delle donne per cui se non sei arrivata a ottanta anni non ti fanno partecipare a una collettiva è in Italia che raggiunge questi livelli, negli altri paesi è molto meno isterica. Qui domina la paura di riconoscere che nello specchio non ci sei solo tu ma c’è anche un altrochè ti guarda: è questuala paura.

 

Roma, dicembre 2002

giosue@giosuemarongiu.it 

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