Il segno dell’arte
L’arte di Paolo Gubinelli è da tempo il segno assoluto dell’arte, la sua pura traccia senza referenti. Non è il solo in questa zona franca delle campiture e configurazioni astratte o non astratte della storia della pittura occidentale. Almeno da quando Mondrian sancì l’idea del segno astratto, tra cielo e terra, con i suoi tratti del più e meno in un rosone di pittura su fondo bianco.
Con il tempo e nei tempi del proprio percorso di pittura, di segno-pittura, l’artista ha svolto un procedere continuo, di lavoro sempre in corso in cui il segno si genera e rigenera lungo il tragitto di coerenza immaginativa, di risoluta poetica in cui le costanti agiscono non di meno delle variabili. Non sarebbe impossibile riconoscere lungo l’opera di Gubinelli una sintomatica tra segno e il vissuto dell’artista. Una sorta, insomma, di sismografia esistenziale tra il segno, i segni e la biografia del proprio essere artista. E non lo dico per caricare di soggettivo, di personale lirismo, che pure c’è, la sua vicenda espressiva, la personale giunzione tra astrazione e realtà, ma per come la sua immaginazione e poetica del segno, la sua pratica e declinazione del segno si siano svolte e continuino a svolgersi corrispondendo allo spirito dei tempi.
L’indefettibile attualità delle sue opere, grafiche per manualità e lirismo, per progetto e sensibilità, non sta certo nella cronaca dei giorni, nell’avvicendarsi dei fatti quanto invece, sino ad oggi, in una rinnovata e comunicante ricezione di poesia sempre imminente e in atto. Attualità, appunto, vissuta e registrata sul campo d’immagine per proporsi e dispiegarsi dentro le realtà contemporanee dell’arte, nel loro succedere scandite per forme e linguaggi, per pratiche e configurazioni dagli avvii della sua ricerca artistica durante gli inoltrati anni Settanta del secolo scorso.
Per trasporto e dedizione, per manìa poietica, voglio dire, le sue intraprese mutazioni nella pratica del segno, nel darsi plastico e lineare di trame geometriche e corsive sul supporto cartaceo con trasparenze, biancori e marezzature di colore, si danno sempre al presente, nella flagranza operante del gesto che incide e disegna. Di qui, pur con spirito appartato, un vissuto che stringe l’arte di Gubinelli al proprio farsi, all’azione del dettato espressivo nel divenire delle militanze dell’arte.
Ricordo il mio lontano primo incontro, qualche decennio addietro, con la sua arte nello studio di Firenze-Rifredi dove supporti e attrezzi, carte e teleri, lucidi e taglierine, punzoni e squadre si mostravano in un ordito materiale indistinto da quello tramato nel rigore affilato del segno, delle sue leggere movenze, delle sue fenditure e pieghe aggettanti la luce dei fogli. Da architetto del segno Gubinelli mi si mostrò nel suo luogo di lavoro artefice e mistagogo di un teatro in cui l’accudita manualità inscenava la drammaturgia del segno, gli assoli e le coralità, le nette stesure e le muliebri metamorfosi.
La temperatura dell’arte a quei tempi era di rarefatta e attiva oggettività, spoglia dagli espressionismi del gesto informale e dalle più recenti ironie sociali del pop-art e di varie tecnologie cinetico-percettive. Tra estroverse esibizioni del corpo nel body-art e minimalismi dei corpi plastici, tra land-art e sofisticate concettualità, tra happenig e narrative-art, gli anni di passaggio dai Settanta e gli Ottanta, lungo quest’ultimo decennio e il successivo, marcano gli esordi e gli assetti maturi dell’opera di Gubinelli nell’affidare alla pratica del segno, al suo assoluto gesto d’immagine astratta un mobile e tacito confronto con le tendenze in corso, verso le diverse poetiche dell’arte. Più di un commentatore ha rilevato questi raccordi con altre ricerche artistiche e sta qui, con il vissuto della ricerca, l’intensa alterità della sua formulazione creativa rispetto al campo consueto della cosiddetta grafica.
Complessivamente si può dire che, sino ad oggi, la conduzione del segno e la elaborazione plastica e pittorica del segno Gubinelli le abbia svolte tendendo a travalicare, pur tenendosi sull’istituzionale supporto cartaceo, il campo convenzionale dell’apparato di tecniche e risultanze dell’opera grafica. Vocazione che incorpora e fa transitare il segno tra plastica e pittura, tra architettura e corsività, tra installazione e mobilità spaziale, tra estroversione manuale e intimità espressiva.
Come sempre quando si scavalcano gli specifici della tecnica anche il segno grafico di Gubinelli, nell’autonoma dimensione costruttiva e poetica, si afferma in un proprio statuto formale, in una piena e plurale capacità d’immagine. A dirla con il Focillon di Vie des formes: “Il segno significa, ma, divenuto forma, aspira a significarsi, crea il suo nuovo senso”. Questa, insomma, la virtualità mentale e sensibile, la virtuosa dimensione di tratto e luce, di grafia e colore spaziali che animano di forma le pratiche del segno, il suo rinnovato generarsi di senso tra progetto e induzione, tra rigori e abbandoni emotivi. L’artista ha da sempre elaborato il segno in un gioco spaziale indistinto e convertibile, tra superficie e spazio, foglio e parete. A vedere i nudi rettangoli di fogli che è solito disporre in sequenza sulle pareti espositive e i teleri di carta che lascia srotolare sino al pavimento, ci accorgiamo che il segno nelle trasparenze e nelle delicate marezzature di colore che lo ambientano, tende travalicare la consueta e frontale bidimensionalità. Tende a coglierci in una sorta di ordito temporale, di veicolante e stereovisiva discorsività, vale a dire, secondo il pungolo percettivo di un racconto trasmesso per coinvolgenza visivo-colloquiale, per avviluppante giunzione di pensieri affidati e sciorinati nello spazio quadrimensionale.
In questa luce ci si può spingere a dire che il segno assoluto di Gubinelli, la sua piena articolazione d’immagine aspira allo spazio ubiquo della poesia. Dove il fare manuale che plasma il foglio nelle pieghe e nei tratti aggettanti il campo planare della carta, dove il segno inciso e le stesure acquerellate seguono e inseguono flussi di pensiero nel combinarsi a un impulso di scrittura pervasiva, di poesia totale. Di fatto, sono numerosi e intensi i rapporti dell’arte di Gubinelli con quella dei poeti: tra carte, segni e versi dedicati alla sua storia espressiva, al suo condurre e comunicare una estrema quanto inesauribile giuntura tra visione e poesia. Quasi che una specie di naturale calamitazione di spirito e grafie destini e faccia interagire un comune dettato, una affine mania di poiesi.
Forse tutto riguarda un’ancestrale matrice del segno, un antropologico dire primario e remoto del segno che principiava a significare senza ancora differenze di senso e di scrittura. Iniziava in quei tempi lontani e oscuri un dire sensitivo e d’emozioni, un dire poetico in senso vichiano che indurrà alle prime scansioni, alle prime grammatiche e architetture del segno e della parola nella visione e nell’ascolto. Come solo può rigenerare e riattualizzare il potere dell’arte, l’arte e la poesia del segno di Gubinelli mostrano sommuovere così lontane radici, così profonde origini tra segno e parola. La sua visibile architettura del segno affonda negli orditi della poesia, la sua misura di segno e colore nella metrica armonica del verso. In effetti, secondo l’autorevole linguista Roman Jakobson si da una notevole analogia tra il ruolo della grammatica in poesia e il ruolo della composizione per il pittore.
Sorrento maggio 2010
Luigi Paolo Finizio