Ilaria Bignotti, “Paolo Scheggi – Le inquiete prospettive”
Abstract del saggio in catalogo
[…] Se, per destino, egli fu uno dei figli lontani del Rinascimento, per volontà e comune sentire ebbe come padre lo Spazialismo: quel movimento sorto alla fine degli anni Quaranta, la cui prima urgenza, al di là dei differenti approdi cui giunsero i suoi esponenti, fu quella di mutare il rapporto tra l’uomo e lo spazio fisico che lo circonda […]
Al bivio fra questi due poli, certo uno più ideale, quasi geneticamente connaturato, l’altro più reale, vissuto sul campo, si giocò il periodo della formazione, quello fiorentino, di Paolo Scheggi.
Geometria, aritmetica, musica: scienze esatte chiamate a partecipare all'imprevedibile gesto della creazione artistica.
Spazio, tempo: concetti universali coinvolti nell'istante dell'opera.
Luce e colore, misura e visione: ogni aspetto doveva confluire nell'elaborazione di una nuova regola aurea, alla ricerca di una divina proporzione del XX secolo.
Posto il problema, si trattava di trovarne la soluzione.
Allora il giovane artista, dal seminterrato della casa paterna di Settignano, lavorava alle sue prime opere, quelle carte che, presentate nel 1961 alla sua prima mostra personale presso la Galleria della Vigna Nuova di Firenze, sono oggi eccezionalmente presenti in questa esposizione. È qui che si consuma l’analisi del primo Scheggi sui modi e sui materiali della pittura, sul rapporto fra il segno e il gesto, sul problema della misura e del calcolo rispetto alla libertà della visione. Emergono anche alcuni colori che accompagneranno poi il intero suo percorso creativo: il bianco, il nero, l'azzurro e il blu, il rosso, qui ridotti a simboli strumentali con i quali misurare gli spazi, e insieme segni approdati sulla tela da un’altra realtà – già metafisica […]
Alle soglie degli anni Sessanta, Paolo Scheggi approda a Milano.
Qui conosce Getulio Alviani, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Piero Manzoni che da qualche tempo, lungo le pagine della rivista “Azimuth” e della Galleria omonima, ma senza la “h” finale, affrontavano la crisi dell'Informale, accomunati dalla creazione di quadri-oggetto: dipinti come elementi integratori dello spazio abitabile, modulatori di una situazione dimensionale o, semplicemente, squisiti elementi plastici dove tela, telaio e sagomatura costituiscono un tutto unitario […]
Tre tele sovrapposte, sapientemente calibrate da cerchi perfetti che ne modulano la superficie attraversandola di ombre e di luci, possono diventare una parete mobile e funzionale, creare un ambiente in grado di trasformarsi a seconda delle esigenze di chi lo vive, essere infine progettate in dimensioni variabili e ripetibili lasciando grande margine di creatività al fruitore ed al contempo gestendone la vita con cristallina armonia. […]
Fu proprio questa necessità, e capacità, nel giro di una vita brevissima, di indagare il rapporto fra l'opera e lo spazio, a far sì che Scheggi portasse la propria ricerca a nuovi, fondamentali sviluppi, applicandola a progettazioni di quartieri urbanistici, sperimentandola in un allestimento teatrale, liberandola in una performance improvvisata per le strade di una città.
Se è vero che
“…Non c’è nessuna soluzione nelle opere di Paolo Scheggi
Non c’è quadratura del circolo…”
Vi sono infinite possibilità, quello sì. Quanto infiniti sono i modi, davanti ad un suo quadro, di scoprire una nuova armonia, un’ombra diversa, e uno spazio metafisico.