FRANCO FABIANO, alla
memoria di un artista
Franco Fabiano
appartiene alla generazione di artisti che, nati negli anni
trenta con ancora addosso i disagi della prima guerra mondiale,
si sono trovati, adolescenti, nel pieno d’un’altra bufera,
capace di annichilire i temperamenti più ottimistici e
sicuramente di “segnare” il futuro d’un ragazzo della Provincia italiana.
E il dopoguerra
sarà, con la ricostruzione, un campo libero che vedrà,
sostanzialmente, due opposti modi di accogliere e di intendere
un nuovo e rinnovato impegno sul fronte delle arti, che molto
schematicamente si potrebbe etichettare con le parole “
figurativo “ e “astratto”. E se, nell’ attuale babele di termini
e di etichette (che spesso nascondono una totale assenza di
contenuti) queste semplificazioni potrebbero sembrare desuete ed
eccessive, rappresentavano, e ancora oggi rappresentano per
molti artisti, un modo, sostanzialmente differente, di vedere,
di intendere e di rappresentare il mondo, e quindi la realtà.
Quando Franco
Fabiano esordisce negli ambienti dell’arte, (entrando in quello
che amo definire, parafrasando Leibniz,” Il peggiore dei mondi
possibili”) dimostra già una precisa scelta a favore
dell’astrazione, della aniconicità, dell’essenzialità in termini
di mezzi tecnici coi quali operare, e di una voluta estrema
riduzione delle possibilità rappresentative. Ezra Pound aveva
scritto a proposito di poesia:”…Scarni,a costo di sembrare
poveri…” E, un’apparente povertà di segno, caratterizzerà in
quei primi anni sessanta, ma anche nel periodo seguente, il
lavoro di questo artista. Nel breve scritto per la prima mostra
personale di Fabiano all’A.A.B, nel 1962, Giannetto Valzelli
nota:”…Qui l’astratto,l’informale,il materico,sono già ceneri
disperse al vento, nel Gange della purificazione. Il pittore fa
tabula rasa, la crisi lo porta a dimenticare con rabbia e
caparbietà…” Sono anni pieni di fermenti e di promesse per
decine di artisti che sentono nell’aria nuove possibilità e
intravedono nuovi orizzonti. E Milano è la città italiana che
più di altre produce novità, a cominciare da quel Fontana che
prima bucava tele e che dal 60 ha cominciato addirittura a
tagliarle. Milano è anche la città dell’industria, dei nuovi
materiali che fanno subito pensare a impieghi volti a fini
estetici. E Milano è il centro del nocciolo anche per un giovane
artista nato e vissuto in una città non molto distante, nel
mezzo di una pianura che si sta industrializzando a ritmi
vertiginosi. Ed è a Milano che Franco Fabiano sposterà il suo
quartier generale (ma prima nell’interland milanese, a Sesto
San Giovanni con altri operatori visuali, e tra questi
Castellani, Bonalumi, il giapponese Hiromi e altri) sicuramente
per dare un’accelerazione alla sua ricerca, ma anche, per
sottoporre” in diretta” ad una continua verifica, il lavoro che
sta portando avanti con caparbietà e determinazione.
Una più esatta
definizione della ricerca che Fabiano andrà sviluppando in
quegli anni lo farebbe collocare nell’area dell’ARTE CONCRETA,
che proprio in quella stagione raggiunge, un po in tutta Europa,
un pubblico sempre più numeroso. Proprio a Milano un movimento
con questo nome aveva segnato il dopoguerra, con artisti,
critici e intellettuali dalla spiccata personalità (basti
pensare a Munari, Soldati, Dorfles, Nigro,Veronesi) che per
primi avevano raccolto e trapiantato in Italia l’eredità delle
ricerche di Piet Mondrian e di Thèo Van Doesburg; così come per
primi in Italia avevano deciso di fiancheggiare la Konkret Kunst,
teorizzata dallo svizzero Max Bill e da tutto il gruppo
zurighese. Ma anche le oramai remote e pionieristiche tesi,
(dalla forte componente filosofica e misticheggiante) di
Malèvich, di Rodchenko, di El Lissitzky e un po di tutta
l’eroica avanguardia russo/sovietica, costruttori e, spesso,
vittime della rivoluzione. Franco Fabiano, secondo la
testimonianza dell’amico Luciano Salodini, era un carattere
piuttosto deciso,caparbio, intransigente con gli altri, ma anche
con se stesso, e questo aspetto psicologico traspare nell’acuta
presentazione che Armando Nizzi fa di Lui e del suo lavoro in un
depliant del 1964 per le gallerie NUMERO (di Roma e Firenze),
dirette con piglio manageriale da Fiamma Vigo.”Franco Fabiano è
giunto alla pittura ricercando una libertà spirituale che in
altri campi non riusciva a trovare…I suoi disegni in bianco e
nero del 1962 (fitti di una grafia illeggibile e disperata)
contengono un’angoscia che subito si avverte. Nelle opere
recenti questa angoscia si è tramutata in ironia; se prima il
soggetto era l’uomo stretto nella morsa della vita moderna ora
l’interesse è rivolto agli oggetti di ogni giorno i
quali,diventati necessità, minacciano sottilmente la poetica
dell’artista,costringendolo all’allineamento…”Intuita la
potenzialità artistica di Fabiano, il gallerista pare ipotecarne
il futuro, subordinandone gran parte, ad aspetti psicologici e a
future contingenze sociali. In quegli anni il lavoro
dell’artista viene presentato, in diverse mostre collettive,
anche in gallerie svizzere e tedesche grazie
all’internazionalizzazione dell’arte concreta e agli agganci di
alcune gallerie italiane con queste. Lo storico dell’arte Udo
Kultermann inserirà Fabiano nella rosa dei protagonisti del
monocromo, in uno scritto dedicato al bianco, insieme a
Demarco Castellani,Tomasello,Uecker,Honeker e altri.
Ma è verso la fine
degli anni sessanta e nei primi anni 70 che Franco Fabiano
accentua una sua insofferenza verso un tipo di ricerca (potremmo
ben dire di ricerche) rigida, asettica e, per sua natura, spesso
necessariamente ripetitiva, e le sue opere incominciano a
contenere elementi di imprevedibilità completamente assenti
nella produzione di alcuni anni prima. Le trame sottese ai suoi
monocromi,quasi sempre bianchi, si fanno più vivaci, più libere,
fino a diventare l’elemento più caratterizzante del suo lavoro.
E’una maggior autonomia quella conquistata dall’artista con un
occhio,semmai, al Ben Nicholson delle tele bianche degli anni
50,oggi alla Tate Gallery. A Brescia nel 1975 viene allestita
un’importante mostra che ben documenta questo consolidato e
nuovo traguardo raggiunto dall’artista dove, accanto alla mai
abbandonata componente razionale emerge, come per una tacita e
oramai accettata tregua, un nuovo orizzonte di libertà segnica e
gestuale.
Ma Franco Fabiano
non amava il mondo dell’arte o,forse, avrebbe voluto dallo
stesso maggiori attenzioni. Tre anni fa, in occasione di una
cena con gli amici, lo invitammo a riproporre il suo lavoro
proprio all’AAB. Ricordo che ci ringraziò, declinando però
gentilmente l’invito; con il mondo dell’arte aveva chiuso.
Fino all’ultimo anno ha prodotto centinaia di opere, quasi
sempre su carta e quasi tutte di piccolo formato, che sono state
amorevolmente e pazientemente ordinate e catalogate dalla
moglie Irene,compagna di una vita. E quest’ultimo nucleo di
opere, che indagano i più differenti aspetti della
rappresentazione (dalle astrazioni fino a lavori fatti su
simbologie o immagini mitiche) aspettano di poter essere esposti
al pubblico ma, prima di tutto, attenderebbero di poter essere
inseriti all’interno di un “Catalogo Ragionato”che è auspicabile
venga intrapreso presto. Con la morte di un artista non si
chiude, bensì si apre,il vero memento di riflessione, di
ripensamento e di fruizione nei confronti di quanto lo stesso ci
ha lasciato. Questo vuole essere un omaggio a Franco Fabiano che
ritorna all’AAB, a chiudere e riaprire un percorso di lavoro e
di esistenza che proprio qui aveva cominciato, nel 1962, ben
quarantacinque anni fa, quando stava per spiccare il breve volo
della giovinezza. Giovinezza, comunque breve, per tutti noi.
Beppe Bonetti -----Settembre
2007